La storia dei coniugi Pakistani Ghazal e Yasir e del loro amatissimo figlio Amaris, ancora lontano da loro

14 Febbraio 2017

Nella foto in alto, l’operatore Alessio della Cooperativa Symploké presente al colloquio,e i coniugi Ghazal e Yasir

Un lungo viaggio, estenuante, durato quattro lunghi giorni dal lontano Pakistan fino a Como.
Un viaggio della speranza, a bordo di un aereo e poi di un pullman, attraversando diversi Paesi fino alla Turchia (una cartina o Google Maps possono aiutare a capire); infine, dopo una traversata di mare dalla Grecia fino alle coste italiane, un altro faticoso e lungo percorso a bordo di un camion (non in prima classe) in compagnia di altre persone in fuga dai loro Paesi fino in terra lariana.
Quattro giorni (dal 26 al 30 luglio 2016) “infernali” – di girone in girone dantesco, in balìa di chissà quale “Caronte” di turno – in fuga dalla loro amata terra, lasciando la persona più cara – il loro bambino Amaris Zarian Yasir di 10 mesi – in mani sicure.
Neppure il tempo di pensare, di tergiversare, di rimandare di qualche ora una scelta mai voluta.
Contro natura.

Oggi i coniugi Chota (Ghazal, 29 anni, di professione infermiera; Yasir, 31 anni, artigiano falegname), sono ospiti in un piccolo alloggio della parrocchia di Sant’Orsola, grazie all’accoglienza del parroco, don Fausto Sangiani, e della sensibile comunità parrocchiale.
Sono fuggiti da Rawalpindi (una città di circa 3,3 milioni di abitanti, della provincia del Punjab, a circa 15 chilometri dalla capitale Islamabad), perché Ghazal, cristiana, nel suo Paese era accusata di blasfemia.

Il marito Yasir condivide con lei questa odissea, perché non aveva e non ha alternative. Le vuole bene (si sono sposati giovanissimi, il 22 novembre 2014), deve proteggerla, insieme “sono in salvo”, ma vogliono assolutamente ricongiungersi con il loro amatissimo Amaris, ospite protetto da una sorella del papà in una città lontano da Rawalpindi.

Appena giunti a Como – in condizioni indescrivibili, anche perché traditi dal loro “Caronte”, che al termine del viaggio (a pochi chilometri da Como) li ha privati di ogni bene (la loro unica valigia, i documenti e i pochi contanti rimasti) sfumando nel nulla – Ghazal e Yasir sono stati “presi in carico” dalla Caritas diocesana che, attraverso la mediazione della Cooperativa Symploké, ha offerto loro accoglienza, temporaneo alloggio e, soprattutto, dopo le consuete pratiche in Questura ha immediatamente inoltrato la richiesta di protezione internazionale.

Dopo un iter burocratico rapido – per evidenti motivi di persecuzione per motivi religiosi – la Commissione territoriale, che si esprime in prima istanza su questi casi, ha espresso parere positivo, riconoscendo a fine anno ai coniugi pakistani la possibilità di soggiornare nel nostro Paese per almeno cinque anni, con lo “status” di rifugiati politici.

«Oggi Amaris ha 17 mesi – dice in invidiabile inglese la mamma Ghazal, occhi scuri velati di profonda nostalgia e tanta speranza – Comunichiamo con lui via Skype due o tre volte alla settimana. In questi giorni mi ha chiamato per la prima volta “mamma”… è nelle mani affettuose della zia (la sorella di Yasir, ndr), che garantisce la sua protezione e condivide con noi questa “avventura”. Amaris non ha potuto seguirci, perché questa fuga era troppo rischiosa per un bambino di dieci mesi. Ora la nostra vita di genitori ha senso soltanto se possiamo riabbracciarlo qui in Italia».
Ghazal sorride, nonostante tutto, e si sente utile, perché ha un lavoro – fa la baby sitter – e soprattutto non è sola, perché si sente accolta, insieme con suo marito, dalla comunità di Sant’Orsola.
Yasir ascolta le parole di Ghazal e il suo volto tradisce lo sgomento e la rabbia di chi, suo malgrado, è “vittima” di un’ingiustizia, soltanto perché coniuge di una donna cristiana perseguitata e cresciuta in uno Stato islamico. Yasir in Pakistan era un provetto falegname (a Cantù potrebbe trovare lavoro in un batter d’occhio) e attualmente è ancora in cerca di lavoro. «Amaris è al sicuro – afferma in un incerto inglese, aiutato dalla moglie – ma non vedo l’ora di riabbracciarlo. La Caritas, attraverso la Cooperativa Symploké, sta seguendo giorno per giorno il nostro caso. Siamo consapevoli che portare Amaris in Italia non sarà facile, ma abbiamo fiducia nelle persone che ci stanno aiutando. Mia moglie e io ringraziamo la Caritas e tutte le persone della comunità di Sant’Orsola che ci sono amiche. In particolare don Fausto, un sacerdote sensibile e attento».
Yasir e Ghazal vivono ogni giorno in attesa di qualche buona notizia. Nel frattempo seguono il corso di italiano organizzato in parrocchia per i migranti accolti in questi mesi a Como, frequentano la comunità, la chiesa… e pensano incessantemente ad Amaris.

Il nostro breve colloquio termina con un abbraccio e una calda stretta di mano.
«Adesso dobbiamo andare a casa – dice Ghazal con un sorriso di mamma ansiosa – Vogliamo vedere il nostro bambino via Skype e sapere dalla zia come ha trascorso la giornata».